Per la prima volta proponiamo il commento ad una mostra non dopo averla visitata, ma prima di farlo (dopo di che, ne riparleremo).
Dopo le recenti Bologna, Monza, Milano e Padova, l’Italia prosegue nella sua reattività perenne, mai doma, alla Pop Art americana, e a tre delle sue espressioni più significative: la produzione di Andy Warhol, di Keith Haring e di Jean Michel Basquiat. Nel frattempo, Roy Lichtenstein è a Parma per conto suo, a Palazzo Tarasconi.
Un rapporto, quello tra la Por Art, il Graffitismo e l’Italia, che ha una lunga storia di accoglimento, sia come contaminazione artistica, che come rassegne espositive museali.
Pittoricamente parlando, sul finire degli anni ’50 e negli anni ’60, la Scuola di Piazza del Popolo a Roma fu la prima a prendere a proprio riferimento, in risposta ad un diverso rappresentare pittorico, tutto il nuovo che da oltre oceano veniva “sparpagliato per il mondo” (per dirla con Giuseppe Ungaretti in “Casa mia”).
Negli Stati Uniti, freschi salvatori del pianeta prima, paladini del consumo di massa subito dopo, Robert Rauschenberg e Jasper Johns avevano riesumato il filone dadaista, quello sublimato e storicizzato da Marcel Duchamp a partire dal 1913.
Si fece trovare pronta “sul pezzo” la Biennale di…